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Alcuni anni fa ho fondato un'associazione per l'insegnamento dell' italiano alle donne dell'Est Europa, che in Italia lavorano soprattutto come badanti e collaboratrici domestiche. Durante le lezioni, tra una regola grammaticale e un'altra, affioravano storie personali incredibili. Di queste donne mi hanno subito colpito la forza morale, la determinazione e l'assenza di qualsiasi altisonanza nel raccontare vere e proprie avventure. Mettermi nei panni di queste donne mi era tuttavia impossibile: l' empatia cozzava con la mia incapacità di comprendere l'accettazione di sacrifici tanto dolorosi. Più di tutto non riuscivo a capire come queste donne potessero convivere con la nostalgia e la frustrazione di non vedere crescere i propri figli. Ho sempre terminato questi corsi con grandi punti di domanda e una fascinazione per l'eroicità di queste storie sommerse. Un paio d'anni più tardi, una domenica di primavera sono entrata in un parco a Bologna e il paesaggio umano che mi sono trovata di fronte ha avuto su di me l'effetto di un rapimento estetico. Nel parco non c'era un solo italiano, solo tantissime donne straniere, sedute in piccoli gruppi, che mangiavano, chiacchieravano, telefonavano. Mi ha emozionata il loro modo di stare insieme perché sembravano stringersi l'una all'altra in un ideale abbraccio. L' immagine ha avuto una forza rivelatrice: quel giorno ho “visto” il film. Mi sono tornati alla mente i loro racconti di vita, carichi di desideri e conflitti da risolvere, e per la prima volta ho pensato a un documentario che assecondasse il desiderio insoddisfatto di comprendere, che provavo nell'ascoltarle in classe, e si interrogasse sull'identità geografica e degli affetti. |